“Ho segnato 130 volte in carriera? Non vorrei sbagliarmi, ma dovrebbero essere 190… ne ho fatti parecchi anche in coppa”. Antonio Croce è così. Talmente “geloso” delle sue reti che dopo due minuti di chiamata ci tiene a precisarne il numero esatto. 37 anni, ma ancora tanta voglia di stupire e far gol. Lo sa anche la Gelbison, che quest’anno ha deciso di affidargli l’attacco. Risultato: doppia cifra in campionato, come sempre. Più di venti maglie indossate, tante regioni girate e un’etichetta di “attaccante top” acquisita con pazienza, sacrifici e sudore. Ma la carriera di Antonio Croce non è stata tutta in discesa. Anzi, una volta ha dovuto affrontare anche una salita molto ripida, soprattutto quando hai 18 anni. “Vinsi il titolo di capocannoniere al Torneo di Viareggio con l’Inter, poi quando pensavo di arrivare in alto, un incidente mi ha buttato giù”.
Da quei momenti ne è venuto fuori grazie a un’immensa forza di volontà, testardaggine e grazie a un allenatore che ha creduto in lui dal principio. Ma ci torneremo. Tra passato, gol, presente e un futuro ancora da definire, la nostra intervista esclusiva ad Antonio Croce, attaccante della Gelbison.
“Ciao Antonio, come va?”, “Eh… proviamo a risalire la classifica”. Inizia così l’intervista con Antonio Croce. La sua Gelbison si trova al momento in nona posizione nel girone H, a -9 dai playoff e -19 dalla vetta. Troppo poco per chi all’inizio aveva ambizioni di vertice. “Siamo partiti bene, poi abbiamo avuto uno stop improvviso. Le nostre ambizioni quest’anno erano di provare a vincere. Fino a dicembre le cose stavano andando discretamente. Secondo me il mercato ci ha un po’ destabilizzato. C’è stato l’esonero di Monticciolo, è arrivato mister Erra, sono andati via 4-5 calciatori e ne sono arrivati altrettanti. Tutti fattori che poi secondo me hanno contribuito al periodo no. Ora vogliamo allontanarci più possibile dalla zona playout e poi vediamo”.
Di squadre e città ne ha girate tante in carriera. Quest’anno Croce ha scelto Vallo della Lucania e la Gelbison. “Qui mi hanno corteggiato e voluto a tutti i costi. Quando una società mi fa sentire importante, nel mio inconscio do sempre qualcosa in più per riconoscenza nei confronti della società. ‘Ha 34 anni’, ‘ Non ce la fa più’. Ne ho sentite tante, ma io poi rispondo in un solo modo: facendo gol. Chi sa di calcio, vede”.
Ossessionato dal gol e dalla doppia cifra. Sono le parole più ricorrenti nel corso della lunga chiacchierata con Croce. “130? Non voglio sbagliarmi, ma sono 190… ne ho segnati parecchi nelle varie coppe tra C e D. Il mio segreto è allenarmi bene, fare vita sana e anche un pizzico di fortuna. E poi ormai i giovani non hanno più la cultura del lavoro come l’avevamo noi, mi stanno allungando la carriera (ride, ndr). Prima era diverso, si arrivava al campo un’ora prima e si facevano posture e stretching. Adesso arrivano e stanno al telefono. Lo ripeto sempre ai ragazzi nello spogliatoio”.
Le reti in carriera sono tante, ma Antonio le ricorda una per una. Quella più bella? Troppo facile. “Foggia-Monopoli, in C, nel 2016. Sono nato a Foggia, è la mia città e giocare in quello stadio, davanti a 20.000 persone e vincere 0-2 con un gol mio in rovesciata… è stato un momento che non dimenticherò mai. A Monopoli ci ho lasciato il cuore. Abbiamo vinto la Coppa Italia di Serie D, ci siamo salvati in C con una squadra giovane e quella stagione ho chiuso a 14 gol”.
Il percorso di Antonio Croce – attaccante della Gelbison – non è però sempre stato semplice e in discesa. Anzi, proprio nel momento in cui a 18 anni sognava di calcare gli stadi più importanti d’Italia, arrivò un brutto incidente che rischiò di comprometterne la carriera.
“Sono cresciuto in un settore giovanile di una scuola calcio foggiana, a 14 anni sono andato alla Vis Pesaro e a 17 anni ho esordito con loro in C1. Da lì a poco mi ritrovai nella Primavera dell’Inter, dove feci anche il capocannoniere del torneo di Viareggio nel 2005. Lì pensai di poter arrivare a livelli altissimi, ma ebbi un brutto incidente in macchina. Rimasi fermo un anno, andai a lavorare in fabbrica per guadagnare e provare a reagire. Non mi interessava più nulla. Dopo quell’incidente stavo male e in quell’occasione persi anche un mio amico. Tutto ciò che mi si veniva detto, tutto ciò che mi circondava non mi interessava. La vita però doveva andare avanti e dovevo fare qualcosa. Per questo sono andato a lavorare. Ma ho avuto problemi fisici e mentali”.
Poi la svolta grazie a uno dei suoi primi allenatori: “Un giorno Mister Enrico Piccioni, che avevo avuto alla Vis Pesaro in C, mi disse che voleva portarmi a Riccione dopo due anni. ‘Voglio darti un’opportunità. Non preoccuparti, ti aspettano’. Mi sono rimesso in gioco e feci 14 gol, poi tornai in C. Devo molto a lui. Era destino che dovessi continuare a giocare, ma la questione incidente mi ha bloccato la carriera”.
Da lì la sua carriera non ha più avuto freni. Quasi 200 gol tra Serie D e Serie C, diverse maglie gloriose indossate e la voglia – a 37 anni – di continuare a stupire ancora.
“A volte per scelte di vita ho preferito rimanere vicino casa e rinunciare ad alcune squadre di C al nord. Mi sento ancora vivo, posso dare tanto e chissà, magari viene fuori anche qualche record. Finché mi chiamano perché devo smettere? Faccio ciò che amo. Poi vorrei rimanere in questo mondo perché ci sono nato. Io a 5 anni andavo a scuola calcio da solo. Sono cresciuto in una famiglia normale, non benestante. A 7 anni dissi al presidente della scuola calcio ‘non posso più venire perché non ho i soldi per pagare iscrizione e kit’. Lui credeva già in me e mi rispose ‘vieni lo stesso e non paghi, ma non dire nulla’. Quindi ho continuato ad andare da solo. Già dagli esordienti segnavo 30 gol a campionato. Feci circa 150 gol solo nel settore giovanile e la Vis Pesaro mi prese nella Berretti. Anche lì andò molto bene”.
Nato con un pallone tra i piedi, a 5 anni andava da solo ad allenarsi ma… suo figlio di quattro anni non vuole giocare a calcio. “Non gli piace, va a danza. Vuole giocare a calcio solo con me. Quando torno a casa me lo chiede sempre. Io sono già vecchietto, poi arrivo anche stanco… ma alla fine giochiamo sempre. L’ho portato a calcetto qualche volta ma non ne vuole sapere. Preferisce andare a danza e va bene così. Deve fare ciò che gli piace“.
Infine Croce ha concluso: “I miei hanno fatto così con me. Mio zio aveva una palestra di Judo, ci andavo qualche volta ma a me piaceva calciare il pallone verso i cancelli in mezzo alla strada, come si faceva prima. Loro non mi hanno mai obbligato a fare qualcosa. Quindi anche mio figlio deve fare ciò che vuole. Che sia danza, calcio, sci, qualsiasi cosa. L’importante che lo faccia con impegno e con piacere”. Impegno, costanza, determinazione, passione. Sono quattro componenti che hanno permesso ad Antonio Croce di togliersi tante soddisfazioni e giocare in piazze blasonate. Tante le avventure. Tutte diverse tra loro, ma con un fattore comune: il gol, la sua ossessione.